In qualunque metropoli affollata, le proprietà immobiliari di pregio sono situate in alto, dove c’è luce, spazio in abbondanza e un bel panorama. I grandi centri urbani italiani non fanno eccezione. I ricchi vivono sulle colline che dominano la città, o in attici con terrazza. Tutto questo, i ceti agiati lo vogliono anche dopo morti. Mentre i cimiteri americani tendono a essere pianeggianti e democratici, i camposanti italiani sono multiformi quanto le città dei vivi. Ci sono proprietà ambite, costituite da appezzamenti spaziosi con vedute mozzafiato, e suburbi più modesti e affollati. Nei lotti pittoreschi, le famiglie ricche usano il loro denaro per costruire elaborati mausolei marmorei per i loro defunti. Intanto, nelle zone popolari, le semplici lapidi di granito sono talmente stipate una accanto all’altra che i fiori lasciati sulla tomba della zia si riversano sul suo vicino di loculo. Qualche tempo fa lo zio di mio marito, Zio Peppe, mi ha chiesto se mi interessava visitare il Cimitero delle Fontanelle situato nella Sanità, uno dei quartieri più difficili di Napoli. Su quel posto avevo sentito raccontare storie macabre. Lì non c’erano lotti “chic”. Niente tombe con vista. Creato nel 1656 per le vittime di un’epidemia di peste che aveva spazzato via mezza popolazione della città, il “cimitero” è un’immensa grotta scavata nel tufo. Lì dentro sono accumulate le ossa di 40.000 persone, in gran parte napoletani poveri che soccombettero alla peste del 1656 o all’epidemia di colera del 1836. Ho esitato. Non sono tipo da impressionarmi per qualche scheletro, ma… non sarebbe stato più piacevole andare a vedere qualche capolavoro rinascimentale nel museo di Capodimonte? “Dai, su,” mi ha incoraggiato lui, facendomi l’occhiolino. “Chiederemo se puoi adottare un teschio.”

Halloween alla napoletana

L’usanza di adottare un teschio, mi ha detto, è cominciata nel XIX secolo. Dato che le ossa nell’immensa grotta appartenevano a ignoti, senza una famiglia che si occupasse dei loro resti, i crani erano considerati “orfani” bisognosi di cure. Perciò le famiglie adottavano una capuzzella, una “testolina”. La spolveravano, le portavano fiori e regali, e pregavano lo spirito del defunto. In cambio, il teschio avrebbe protetto la famiglia e i loro cari. Mio figlio ha 10 anni e odia le visite turistiche. Ma appena ho detto che andavo a vedere i teschi di 40.000 morti e magari ne avrei adottato uno, si è subito gasato. Zio Peppe ci ha guidato dentro l’imboccatura profonda e ammuffita della grotta. Alla luce tremolante delle candele votive, abbiamo visto montagne di teschi ai due lati del passaggio. Molti di loro erano coperti di una polvere sottile e collegati l’uno all’altro da un intrico di ragnatele. Alcuni (quelli che si erano accaparrati una buona famiglia adottiva, immagino) erano sistemati in minuscoli mausolei di marmo, mentre altri erano chiusi in teche di vetro. Se ci fosse stata anche qualche zucca intagliata, avrei giurato che si trattava di un allestimento per Halloween. Alla fine del sentiero erano stati eretti bene in vista due altari con dei teschi presumibilmente importanti. Accanto ai due mausolei di capuzzelle erano posate in verticale delle foto moderne: una mostrava una poderosa massaia degli anni ’60, l’altra un ragazzo con la maglia del Napoli. Altri oggetti lasciati dai devoti protettori degli scheletri erano: pastiglie per la gola, stick di burrocacao, pettini e monete. C’era perfino un biglietto per la metropolitana di Napoli, non timbrato, casomai il teschio avesse qualche commissione da sbrigare in un’altra parte della città. “Guarda la lettera, mamma,” ha esclamato mio figlio. Era scritta su un foglio di quaderno a righe e appoggiata su un cranio ben tenuto. Era datata ottobre 2010, e diceva: Caro teschio, ci vogliamo sposare ma non abbiamo un lavoro. Ci aiuti a trovarlo? Un altro messaggio scritto su un post-it giallo lì vicino diceva che Zio Ciccio era malato, e chiedeva la grazia della sua guarigione. Abbiamo trovato anche messaggi di ringraziamento. Zia Rosaria sta bene! Grazie, capuzzella! A quanto pareva gli scheletri, se venivano trattati con riguardo e affetto, ricambiavano il favore.

Sudore fortunato, teschio fortunato

Una grande scultura composta interamente di femori umani segnava una deviazione su un altro viottolo, anch’esso fiancheggiato su entrambi i lati da mucchi di scheletri. In fondo a questo c’era un teschio che appariva completamente diverso. Mentre gli altri teschi erano polverosi, opachi e fragili, questo era di un bianco lucente. Era avvolto da varie collanine con i grani di plastica, ed era circondato da prodotti per il trucco lasciati in dono: fondotinta, rossetti, smalti per unghie. Evidentemente era il teschio di una donna, e aveva bisogno di trucchi e accessori. “Si chiama la capa che suda,” mi ha detto Zio Peppe. “Secondo la leggenda suda in continuazione, ed ecco perché il teschio è così lucente. Se lo tocchi ti resta la mano bagnata, e porta fortuna.” Però la capa che suda era collocata a un buon metro di distanza oltre la catena arrugginita che presumibilmente serviva a tenere lontani i visitatori.  Mio figlio mi ha guardato: era chiaro che aveva voglia di toccarla. In giro non si vedevano guardiani. Io ero indecisa: scavalcare la catena e lasciarlo fare, o rispettare il regolamento? I devoti che avevano portato le offerte dovevano per forza aver saltato la recinzione. Però loro sapevano che ne valeva la pena, avevano fede nella capa che suda. La nostra invece era semplice curiosità. Lo scheletro l’avrebbe capito? Ci avrebbe portato sfortuna invece che fortuna? “Non facciamo arrabbiare gli scheletri oggi, tesoro,” ho detto a mio figlio. Lui, seccato, ha dato un calcio a una scheggia di tufo.

La tradizione dei teschi in affido

Zio Peppe conosceva la storia del cimitero, ma non sapeva molto dei riti moderni riguardanti le capuzzelle. Perciò, uscendo, ci siamo fermati al gabbiotto delle informazioni. C’era solo il bigliettaio sdentato, e a lui ho chiesto notizie sui regali lasciati lì, sull’adozione dei teschi. Chi lo fa? Quando lo fanno? Sono cose di famiglia? La sua risposta mi ha sorpreso. “Qua nessuno lascia niente. Non lasciano più niente fin dagli anni ’50, l’epoca in cui si veneravano le capuzzelle.” Ma le lettere più recenti, i biglietti della metropolitana? Lui ha schioccato la lingua e ha fatto segno di no con il dito, come una maestra dell’asilo. “Io apro questo posto la mattina e lo chiudo la sera. Non viene mai nessuno, tranne quelli delle visite guidate. E stiamo attenti a non fargli lasciare niente.” E con questo ha chiuso la sua finestrella e si è rimesso a giocare a Candy Crush sullo smartphone. Saremmo dovuti tornare di notte, ho deciso io, quando era “chiuso”. Mio figlio ha suggerito di venirci il 31 ottobre. Ok, ho risposto, ma la prossima volta portiamo qualche offerta. Abbiamo un sacco di giocattolini dell’Happy Meal di McDonald’s, magari ai teschi piacciono. E io ho un sacco di rossetti scaduti. Non che fossimo pronti ad adottarne uno, ma chi lo sa? Avere dalla nostra parte una di quelle testoline non guasta.

Hai apprezzato questo racconto? È stato scritto da Katherine Wilson, autrice del libro "La moglie americana" edito da Piemme (Mondadori), quando lo leggerai resterai incantato da altri racconti su luoghi, sapori e tradizioni napoletane visti con lo sguardo attento e curioso di una moglie e scrittrice degli U.S.A.